Naming: come scegliere un nome efficace per un brand.
Il naming è un fattore decisivo per il successo (o l’insuccesso) di un prodotto, un servizio, un’azienda, un brand. È così vero che, oggi, esistono professionisti che fanno solo questo: cercano il nome giusto.
Prima di procedere, cerchiamo di capire cos’è il naming e qual è l’impatto che può avere su un business. Il Naming può essere definito come un settore del marketing che si occupa dell’ideazione del nome di un prodotto (in senso lato). I nomi sono strategie e, in quanto tali, devono essere valutati, testati, venduti e dimostrati. Accade molto spesso di dover esaminare centinaia di nomi prima di trovarne uno legalmente disponibile e che serva al suo scopo.
Ma qual è lo scopo di un naming?
Rappresentare un’azienda, trasmetterne i valori e supportare le sue strategie di comunicazione. Ricordiamo che, più di ogni altra cosa, è il nome di un brand ad essere trasmesso, ogni giorno, in conversazioni, messaggi, e-mail, siti web, applicazioni, prodotti, pubblicità, biglietti da visita, presentazioni, OVUNQUE.
Buona lettura.
Naming: un nome è per sempre (case study da ricordare!).
La scelta del nome è una delle decisioni più importanti nella vita di un prodotto, sia esso un oggetto tangibile o il risultato di un’attività intellettuale. Per una nuova auto, come per un nuovo modello di progettazione, il nome giusto o sbagliato può fare la differenza tra successo e insuccesso.
Tra le più imbarazzanti case history negative, il lancio sul mercato sudamericano della Mitsubishi Pajero. I marketer della casa automobilistica giapponese ignoravano che quel sostantivo apparentemente innocuo (der. di paja: chi raccoglie, vende o lavora la paglia) avesse, in slang, un significato tutt’altro che lusinghiero. Un pajero è un uomo che pratica abitualmente un’intensa attività autoerotica; la macchina omonima è il fuoristrada più sottovalutato del mercato, per quanto la Mitsubishi, realizzato l’errore, abbia fatto una rapida marcia indietro, ribattezzando Montero, cacciatore, il 4×4.
Erano i primi anni ottanta. Contribuirono alla gaffe, oltre ad una certa dose di superficialità, la mancanza di una rete di telecomunicazione globale e l’inesperienza in una disciplina, il naming, non ancora strutturata.
Episodi di questo tipo, tuttavia, continuano a verificarsi ancora oggi, con la rete che, da utile strumento di ricerca e confronto, diviene cassa di risonanza per figuracce globali. Nel 2009, la multinazionale della cosmesi Estée Lauder, ha lanciato sul mercato internazionale il fondotinta Country Mist, nebbiolina di campagna. Peccato che in tedesco il termine Mist significhi letame. Dalle stelle alle stalle.
I prodotti sono sempre di più, i nomi disponili sempre meno. Per questo, spesso, è preferibile inventare nomi nuovi, senza alcun riferimento diretto al prodotto, ma dal suono distintivo.
Nel 1888, George Eastman chiamò Kodak la macchina fotografica di sua invenzione. Eastman aveva identificato un nome breve, piacevole e facile da ricordare. Un nome perfetto che poteva, oltretutto, essere facilmente registrato perché non significava assolutamente nulla.
Naming: tutti i requisiti fondamentali.
Ciascun nome evoca in noi immagini, percezioni, ricordi. Genera opinioni, suscita attese. Un nome commerciale o istituzionale che funzioni deve soddisfare il maggior numero possibile di una lunga serie di requisiti:
- posizionare il prodotto sul mercato;
- esprimerne l’essenza;
- avere carattere;
- raccontare;
- far desiderare;
- essere eufonico;
- facile da pronunciare;
- semplice da memorizzare;
- sufficientemente diverso dai nomi dei concorrenti;
- abbastanza affine ai codici merceologici;
- essere breve.
Allo stesso tempo, un naming che funzioni, non deve:
- avere connotazioni o assonanze negative in alcuna lingua;
- prestarsi a pericolose volgarizzazioni;
- vivere una stagione, ma conservare intatte, nel tempo, le proprie qualità.
Naming: la necessità è la madre delle invenzioni.
Questa lunga premessa aiuterà il lettore a valutare con cognizione di causa l’ultima sfida che mi è stata proposta: l’azione di rebranding di uno nuovo modello di progettazione, appena battezzato e già bisognoso di una revisione del naming: Relational Design.
Brief: trovare un aggettivo alternativo a Relational, meno inflazionato, ma non troppo diverso. La pagina Relational Design è già online. Gli utenti hanno approvato la definizione relazionale del modello: “Relational Design: nuovo modello di progettazione finalizzato ad istituire una relazione di fiducia tra utente e prodotto digitale, sulla base della privacy e della sicurezza informatica”. Trasparenza dei business digitali e diritti dell’utente sono al centro di questo modello che integra le prescrizioni del regolamento europeo sulla protezione e il trattamento dei dati personali (Global Data Protection Regulation, GDPR).
La questione ha una complessità che va ben oltre le buone pratiche di raccolta, archiviazione e trattamento dei dati. Il nodo è il valore giuridico che viene finalmente riconosciuto alla sensibilità umana. Gli utenti sanno di avere il diritto di impedire ad altri la conoscenza di ciò che non desiderano sia reso noto e il diritto di escludere terzi dalle informazioni che li riguardano. Le aziende e gli imprenditori hanno l’obbligo non solo giuridico, ma anche morale, di salvaguardare questi diritti, tutelare la sensibilità degli utenti, proteggere i loro pensieri privati, adeguandosi al nuovo contesto normativo e sociale.
Naming: da dove iniziare?
Dall’analisi di ciò che abbiamo.
Relational: concerning the way in which two or more people or things are connected.
Design: purpose or planning that exists behind an action, fact, or object.
L’aggettivo Relational ha un’accezione né positiva, né negativa. La soluzione al nostro problema di naming potrebbe consistere nell’attribuire a questo aggettivo una connotazione positiva definita. L’unico strumento utile a questo scopo (l’unico che eviti il ricorso ad una perifrasi) è la sincrasi, un neologismo formato dalla fusione di due parole diverse.
Il linguista e lessicografo Bruno Migliorini coniò per i neologismi sincratici un nome meno terrificante: parole macedonia. L’espressione corrispondente nella lingua inglese, portmanteau, si deve a Lewis Carrol. Derivata dal francese portmanteau, si riferiva a una grande valigia da viaggio con due scompartimenti. Una parola macedonia è composta da due termini che hanno un segmento in comune.
Lo step successivo all’analisi è la ricerca di un secondo termine con una o più lettere condivise con l’aggettivo Relational.
Naming: primo tentativo.
RELATIONAL + onward = RelatiOnward
Onward: adv. 1. In a continuing forward direction; ahead. 1.1 Forward in time; 1.2 So as to make progress or become more successful.
-ward: suffix 1. In the direction of.
Il neologismo, sottoposto ad un madrelingua, suggerisce immediatamente questo significato: “in grado di portare avanti una relazione, di farla progredire”. Il RelatiOnward Design (o RaltionWard Design) potrebbe corrispondere ad un nuovo modello di progettazione finalizzato a far progredire il rapporto tra utente e prodotto digitale, adeguarlo in rispondenza al rinnovato contesto sociale e normativo. Un rapporto evoluto tra utente e applicativo è un rapporto basato sul rispetto della privacy e della sicurezza informatica, un rapporto di fiducia in cui l’utente è ottimista e disponibile a compiere le azioni che il progettista ha previsto per lui.
Questa soluzione ha un difetto importante: l’avverbio inglese onward, così come il suffisso -ward, non ha un significato largamente conosciuto. Cassato!
Naming: secondo tentativo.
RELATIONAL + -able = Relationable
-able: dal latino -abilis. Questo suffisso denota capacità, attitudine, idoneità. Nel dettaglio, dall’Oxford Dictionary:
- 1 (forming adjectives) able to be. ‘calculable’
- 2 (forming adjectives) to be. ‘payable’
- 3 (forming adjectives) subject to. ‘taxable’
- 4 (forming adjectives) relevant to or in accordance with. ‘fashionable’
- 5 (forming adjectives) having the quality to. ‘suitable’ or ‘comfortable’
Il Relationable Design è un modello di progettazione che ha in sé i presupposti per poter essere relazionale (able to be) e che lo è, di fatto (to be), perché soggetto alla nuova normativa europea sulla privacy (subject to) e ad essa conforme (in accordance with). Un design Relationable ha tutte le qualità di uno strumento relazionale (having the quality to): è intelligente, affidabile, efficiente, comunicativo.
Una soluzione possibile. Difficile, però, apprezzarla appieno a meno di una certa dimestichezza con le molteplici funzioni di determinazione semantica dei suffissi. Si può fare di meglio. Confezionare un messaggio meno implicito.
Naming: terzo tentativo.
RELATIONAL + action = Relactional
Modello di progettazione finalizzato ad istituire una relazione attiva tra utente e prodotto digitale, un rapporto di fiducia in cui l’applicativo diventa una risorsa responsabile che contribuisce attivamente a dare informazioni, rispondere a domande, soddisfare i bisogni della persona e tutelarne i diritti.
Forse ci siamo! Un rapido check con addetti ai lavori conferma le mie sensazioni positive. La soluzione risulta, come richiesto, convenientemente vicina all’originale Relational, sintetica e coerente rispetto ad un sistema di valori da salvaguardare.
L’intersezione.
Le soluzioni si nascondono spesso nei punti di intersezione: l’intersezione tra due parole e i loro significati, l’intersezione tra necessità del sistema economico e diritti delle persone. Il Relactional Design è un’intersezione: mira alla creazione di progetti sostenibili e scalabili nel rispetto dei diritti degli utenti. Comportamenti, opinioni, preferenze e informazioni personali potranno essere raccolti, utilizzati e divulgati solo nel rispetto della legge e della dignità degli interessati, per garantire non solo la riservatezza della persona ma anche la sua piena libertà di scelta.
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